Tuesday, 14 July 2009

Troppo presto per essere ottimisti


Tre ottimi motivi per essere pessimisti ed evitare trionfalismi
di Marco Onado, professore a contratto senior presso il Dipartimento di finanza della Bocconi

Dall’inizio della primavera si è diffusa la sensazione che il peggio della crisi sia passato. Prima timidamente, poi con sempre maggior decisione, le autorità dei principali paesi hanno parlato di “germogli di ripresa” e i mercati di borsa hanno avviato un rialzo spettacolare, tuttora in corso, con aumenti del 20-40% rispetto ai minimi di inizio marzo (100% addirittura per la Russia). Tutto bene quindi? Ci sono almeno tre motivi per essere prudenti, oltre naturalmente la scaramanzia che in questi casi è d’obbligo.

Il primo è che gli squilibri macroeconomici e finanziari che hanno portato alla crisi non sono stati ancora risolti, tanto che l’ottimismo viene solo dal rallentamento dei segnali negativi (in primis la produzione industriale), piuttosto che da un cambiamento di segno degli indicatori. Come ha detto il presidente della Fed, Ben Bernanke, in una testimonianza al Congresso ai primi di giugno, “le imprese sono ancora molto prudenti e continuano a tagliare posti di lavoro e investimenti”. Ne consegue il rischio concreto di un lungo periodo in cui la crescita può risultare inferiore a quella potenziale. Lo spettro della ‘sindrome giapponese’, in cui la crisi finanziaria ha pesato come un macigno sullo sviluppo economico del paese per oltre un decennio, è tutt’altro che rimosso.

In secondo luogo, le migliaia di miliardi di dollari che i governi hanno impiegato o impegnato sotto forma di ricapitalizzazioni, sussidi e garanzie pubbliche lasceranno un’eredità pesante, di cui è ancora difficile scorgere le implicazioni di lungo periodo. Uno studioso di prestigio come John Taylor, della Stanford University, denuncia preoccupato che “il deficit federale sta esplodendo” (Financial Times del 26 maggio): dal 48% del pil di fine 2008 è previsto dal Congressional Budget Office balzare all’82% in 10 anni e al 100% in altri cinque. La gestione di questa massa enorme di debito aggiuntivo (creata, si badi, per curare l’eccesso di debito privato) sarà estremamente difficile, tanto che i mercati hanno determinato un rialzo significativo dei tassi di interesse a lungo termine.

A questo si aggiunga il problema delle banche centrali, che si sono caricate di titoli rischiosi in quantità assolutamente straordinarie e che, nel caso della Fed e della Bank of England, in base alla strategia di quantitative easing, stanno acquistando a piene mani titoli pubblici a lungo termine. Taylor sostiene che le banche centrali oggi hanno la grande tentazione di lasciare che una grande fiammata inflazionistica riporti debiti pubblici e privati a livelli sostenibili. Si tratterebbe di uno scenario non meno preoccupante di quello giapponese. La testimonianza di Bernanke contiene fra le righe la consapevolezza che le banche centrali, avendo scampato lo scoglio di Scilla dell’implosione del sistema finanziario mondiale, dovranno ora affrontare la Cariddi del controllo del debito pubblico e dell’inflazione.

In Europa, i problemi non sono molto diversi: il Trattato europeo e lo statuto della Bce offrono una difesa in più rispetto agli Stati Uniti e al Regno Unito, ma il recente attacco di Angela Merkel all’istituzione di Francoforte getta ombre inquietanti sull’indipendenza della nostra banca centrale nel prossimo futuro.
Il terzo punto fondamentale è che nel clima di ottimismo si sta allentando la tensione sulla necessità di cambiare le regole del sistema finanziario. Come se quello che abbiamo attraversato fosse un semplice incidente di percorso, sono sempre più diffusi i moniti a evitare costi eccessivi di regolamentazione e, quel che è peggio, aumentano le divergenze sul come garantire il coordinamento dei regolatori a livello globale oppure a realizzare un livello europeo, in particolare all’interno di Eurolandia, di supervisione finanziaria.

In sintesi, l’unica certezza è che il fronte finanziario della crisi è ragionevolmente sotto controllo. Ma si aprono tre fronti non meno delicati sui quali si deciderà la battaglia economica e politica dei prossimi anni. Non è ancora il momento di smobilitare l’esercito e tanto meno di danzare nelle piazze.

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